Perchè sono due anni che il Pirata è scomparso
di Candido Cannavò
Sono passati due anni, ma potrebbero essere venti o cinquanta: la ferita non si rimargina. La morte di Pantani non è una morte qualunque: ha la crudeltà di una vita troncata all'età di Cristo e si porta dietro clamori e rimorsi, grandezze e miserie, eroismi e l'inestinguibile senso del peccato. Un cocktail di verità che si scontrano con un solo elemento comune: l'affetto. La parabola di Marco è, nel rispetto delle proporzioni, un evento da processi storici, dove i fatti si estrarranno finalmente dalle emozioni violente che ancora ci fibrillano addosso e la lucidità dell'analisi prevarrà su sentimenti, rabbie e dolori. Ma tutto ciò appartiene a un futuro chissà quanto lontano. Per adesso il ricordo di Pantani, al di là del dramma, resta disegnato nelle sue montagne che rappresentarono per un'epoca di ciclismo e di sport una sorta di inebriante palcoscenico mobile, dovunque si trovassero e qualunque nome avessero. Erano montagne segnate dalla pedalata di Marco che le carezzava, le irrideva, le rispettava, le sconsacrava, le riempiva di folla, le legava al suo nome, magari insieme a quello di Coppi. Da lì, da quelle imprese che scorrono dal Mortirolo '94 sino al Giro e al Tour del '98, parte qualsiasi rievocazione. E poi la storia sprofonda, insieme con il suo protagonista. Dall'empireo della gloria in cui si collocava un eroe nazionale, al giorno della funesta scoperta del sangue inquinato sino al desolante crepuscolo, all'inferno della perdizione, alla morte solitaria di un uomo che non si riconosceva più non dico sui pedali, ma neanche guardandosi allo specchio. E', come vedete, una storia esaltante e mostruosa, piena di valori e di squallori. Si potrà discutere all'infinito sul famigerato mattino del 5 giugno del '99, che resterà per sempre una delle più orribili giornate della mia vita, ma non si può rinnegare la verità di un'analisi, l'unica che Marco aveva accettato. Pantani era padrone assoluto del Giro. Perché quell'eccesso? Chi lo ha indotto al peccaminoso errore, dopo due controlli superati in zona di confine? Forse Marco, già pieno di vittorie, voleva regalare al Mortirolo, la montagna del suo battesimo di campione, un'impresa da ricordare per decenni. Errore ingenuo, reato di superbia, pesanti connivenze ambientali? A noi e al Giro d'Italia è caduto il mondo addosso. E subito dopo un'altra inquietante domanda: qual era il vero Pantani? Non è vero, come ipocritamente si dice, che "solo lui ha pagato". La galleria dei corridori smascherati ai controlli è lunga. Più o meno, tutti si sono rialzati, magari a fatica, dopo aver scontato il prezzo della colpa. Marco non ce l'ha fatta: era caduto da un grattacielo. Il mondo del ciclismo deve chiedersi se la morte di Pantani non sia anche un reato collettivo. Da grandezze e miserie, esaltazioni e lacrime, emergono alla fine i suoi occhi scuri e pungenti, la sua sensibilità, la sua voglia di lasciare tracce importanti anche al di fuori dei recinti del ciclismo. La sera prima del misfatto, Marco mi disse: «Mi piacerebbe investire la mia popolarità per aiutare i bambini». Tra l'epica delle montagne e la solitudine fatale di un residence, il Pantani di quella sera resta il più vero, il più presente nella ferita che non si rimargina.
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