Poison Pills ---> Te lo dico io perchè

P I L L O L E A V V E L E N A T E S E N Z A E F F E T T I C O L L A T E R A L I

lunedì, gennaio 16, 2006

Perchè la letteratura e la malattia sono così legate
Quello della malattia è un tema così diffuso in letteratura che se ne può parlare come di un vero e proprio topos letterario. Esso può essere presente in vari modi in un testo: può essere malattia di alcuni personaggi o malattia di un'intera collettività, può essere malattia corporale o morale, può avere un valore proprio, diciamo "casuale", o, più spesso, un valore simbolico.
In passato, la malattia era vissuta dagli uomini come una punizione inflitta dalle divinità. La punizione poteva investire un singolo individuo, reo di qualche terribile colpa verso altri individui o, almeno con la stessa puntualità, di avere infranto tabù inviolabili. Non soltanto le malattie, ma anche le deformità fisiche (la gobba, il rachitismo, ecc.) vengono collegate e attribuite a "deformità" morali dell'individuo. È per questo motivo che in quasi tutte le società antiche o primitive i gobbi e i deformi rappresentano un elemento disturbatore e pauroso, come se, essendo perseguitati dalle stesse divinità, non potessero far parte della comunità come tutti gli altri. Talvolta la punizione è collettiva, di massa. In questo caso un'intera città o un'intera popolazione può subire la collera degli dei. Tra gli esempi più lampanti a questo riguardo abbiamo le numerose punizioni divine raccontate nell'Antico Testamento: intere città distrutte da Dio perché colpevoli di offendere la morale, come Sodoma e Gomorra, oppure popolazioni annientate da calamità naturali o malattie, come per gli Egiziani con Mosè. Le malattie più diffuse, nella realtà come nell'immaginario letterario, erano la peste, la lebbra, il vaiolo, la sifilide: non a caso malattie che sfigurano fisicamente e che erano considerate come la conseguenza evidente di una deformazione morale.
In epoca moderna il tema della malattia diventa ancora più significativo. Nel XIX secolo e durante i primi decenni del XX secolo, è soprattutto la tubercolosi che si carica di significati metaforici in letteratura. Questo perché è una malattia di cui si scoprì la causa solo molto tardi: una malattia, quindi, facilmente collegabile ad un significato secondo. A fianco della tubercolosi si trovano, più tardi, le malattie mentali e il cancro; recentemente anche l'AIDS. La malattia diviene così il mezzo più adatto per tentare di escludere il singolo dalla collettività. L’uomo “contagiato” non è più “Zoon Politikòn”, diviene solo un animale, da allontanare.
La tempestività e l’interesse con cui nella storia della letteratura ci si è occupati della più tipica forma di epidemia porta a supporre una sorta di rapporto “morboso” tra artista e pestilenza, quasi come se la salute rappresenti solo l’indifferenza, lo “status” dell’uomo comune. La malattia prende dunque la forma di un rifiuto dell'ordine, dell'autorità; di un'evasione dall'organizzazione perversa dei rapporti socio-economici: diventa sintomo di un malessere, di una mancata integrazione dell'individuo nella società.
Il tema doloroso della peste costituisce un filo che percorre tutta la letteratura occidentale, da Omero al romanzo La peste di Camus. Già nel I libro (vv. 55-70) dell’Iliade di Omero, infatti, una pestilenza miete vittime nel campo degli achei: il morbo è stato inviato da Apollo per punire Agamennone, colpevole di non aver liberato dietro riscatto la figlia del sacerdote Crise. Analogamente, nell’Edipo Re del tragediografo Sofocle (V sec. a.C.) la peste che affligge la città di Tebe è conseguenza del crimine di Edipo, uccisore del padre Laio. A spiegare la causa delle epidemie e a indicarne il rimedio, perlopiù la rimozione di una colpa che è stata commessa, sono gli indovini – Calcante in Omero e Tiresia in Sofocle –, a dimostrazione della natura prodigiosa del fenomeno, che dipende da una contaminazione trasmessa al territorio e ai suoi abitanti dalla colpa. Solo nello storico Tucidide le spiegazioni teologiche sono accantonate e in loro vece subentra, sulla scorta della medicina di Ippocrate, la descrizione dei sintomi e della fenomenologia morbosa: dalla localizzazione gastroenterica sembra di poter dedurre che la peste di Atene del 430, da lui narrata nel secondo libro delle “Storie” (capp. 47-54), fosse in realtà una forma tifoidea.
Il carattere archetipico della cultura greca è ben visibile nella nascita del topos letterario della peste: nelle successive descrizioni si intrecceranno variamente lucida razionalità e componente magico-superstiziosa. Non è certo un caso che Lucrezio abbia preso a modello Tucidide: il poeta romano, noto seguace della filosofia edonista epicurea, nel nome di Tucidide, avanzava una inequivocabile professione di razionalismo, integrato nella nuova prospettiva epicurea.
Dopo Lucrezio, nella Roma Imperiale, il tema fu ripreso da Virgilio nella descrizione della peste del Norico (nel III libro delle Georgiche): protagonisti della sofferenza sono qui gli animali, ma il racconto si fa perfino più patetico, segnato da tratti di umana partecipazione. Le imitazioni si susseguirono, con esempi, più o meno celebri in Ovidio, Seneca, Lucano e altri ancora fino allo storico dei longobardi Paolo Diacono.
Colpito da un’apparente necessità di letargo il tema della peste scompare dalla letteratura “elevata” sino al Trecento quando Boccaccio inquadra il “Decamerone” nel racconto della peste fiorentina del 1348, narrata proprio secondo il modello di Lucrezio. Paradossalmente l’opera del “padre della prosa italiana” trae la sua potenza proprio dalla fortezza della descrizione che vede nella “Peste”, “vezzeggiata” nell’introduzione, una delle sue più alte rappresentazioni. Il “modello lucreziano” interagisce sicuramente anche con le descrizioni della peste milanese del 1630, di cui si occupa Alessandro Manzoni nella “Storia della colonna infame” e nei capitoli XXXI e XXXII dei “Promessi Sposi”. Qui, la malattia, che distrugge l'ordine e la vita dell'intera città di Milano è metafora dell'irrazionalità, del guazzabuglio, del cattivo governo. «Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall'agitazione delle menti, una forza straordinaria...» (cap. XXXII) e «Il buon senso c'era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune» (cap. XXXII). Persino lo scrittore inglese Daniel Defoe, nel suo Diario dell’anno della peste, scritto nel 1722, rievoca attraverso il diario di un testimone oculare la peste di Londra del 1664.
L’apice del livello letterario è però raggiunto dall’ultimo scritto significativo sull’argomento, “La peste” del romanziere francese Albert Camus: in esso la descrizione della città di Orano, in Algeria, assediata dalla peste è un’allegoria puntuale dell’occupazione nazista (il nazismo viene così inteso come patologia della storia) e più in generale della condizione umana soggetta alla negatività del male. La Peste di Camus è un esempio moderno di ripresa di un tema antico e moderno (Manzoni), quello della malattia collettiva che investe un'intera città. In questo romanzo la peste è metafora della guerra (guerre mondiali e guerre civili che devastano il mondo intero nella prima metà del Novecento), con tutto ciò che provoca: isolamento, allontanamento dai cari, problema della scelta tra impegno sociale e necessità individuali, morte ed esilio.

Il mutamento delle condizioni economico-sociali ed un sostanziale miglioramento del livello di salute ha portato il letterato, l’artista, a modificare l’oggetto delle sue metafore. La peste non è più “La Minaccia”. Oggi le minacce sono altre, si chiamano terrorismo, antrace, influenza aviaria, AIDS, cancro. I nomi più disparati. Più confusi. E intanto la gente continua a morire. Come se il tempo si fosse fermato. Come se non scorresse più. L’uomo può così dare un nome nuovo al suo nemico e libero sfogo alla sua vena creativa.